Il romanzo di un popolo: Napoli e lo scudetto della consapevolezza.

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Lo Scudetto del Napoli e il Mistero della Gioia

C’è un segnale profondo da cogliere nell’aria satura di fumo azzurro a Mergellina, nel calore amaro dei fumogeni e nella gioia incontenibile delle centinaia di migliaia di persone che ieri hanno acclamato l’arrivo dell’“astronave dei sogni” lungo il lungomare. È il culmine della cavalcata vincente guidata da Conte, De Laurentiis, McTominay e da una squadra che ha conquistato lo scudetto con pragmatismo, fatica, intelligenza tattica e dedizione. Una festa che ha unito terra e mare: caroselli di auto, persone accalcate ovunque, persino barche ferme ad aspettare i pullman dei campioni, mentre dalla Villa Comunale si sbircia tra le grate.

Questa festa ha un valore che va oltre il calcio. È una domanda esistenziale travestita da celebrazione sportiva: perché è proprio il calcio a renderci così felici? Perché non il sudoku o un’altra passione più “tranquilla”? Forse perché la felicità più vera nasce da ciò che non ci chiede nulla in cambio. È gratuita, come l’emozione condivisa in una metropolitana stipata all’inverosimile, dove si viaggia stretti come chicchi di riso ma con il cuore leggero.

«Sopporto tutto», dice Gianni, 16 anni, arrivato da Barra, mentre si fa largo tra la folla. «Ma il Napoli ha vinciuto ’o scudetto e dobbiamo esserci». È scomodo, sì, ma è anche felice. Perché il calcio, più che uno sport, è una fede capace di trasformare un lunedì qualsiasi in una domenica di festa. Migliaia di persone hanno preso ferie o si sono assentate dal lavoro per non mancare.

Il calcio è così: non solo pura bellezza gratuita, ma anche sfida, orgoglio, affermazione. Da un lato non ti dà nulla di concreto, dall’altro ti fa sentire parte di qualcosa che conta, che segna una differenza.

Eppure, se questa miscela di poesia e competizione è propria del calcio ovunque, c’è qualcosa di unico a Napoli. Qualcosa che attira perfino turisti scozzesi in kilt, inglesi, francesi. Napoli, capitale del Sud, è il rifugio delle emozioni in un mondo che si è fatto duro, cinico, incapace di meravigliarsi. Qui, invece, l’emozione è ancora viva. E libera.

Questa non è solo la cronaca di una vittoria sportiva. È il racconto di un popolo e del suo profondo senso di appartenenza, che va ben oltre la festa e oltre lo stesso trionfo calcistico. Celebrando lo scudetto conquistato al termine di un cammino entusiasmante, Napoli festeggia se stessa: il proprio orgoglio, la propria identità, il proprio posto nel mondo.

Nella gioia collettiva per l’impresa sportiva, la città esprime il suo spirito. E anche la propria felicità. C’è un filo invisibile che unisce le generazioni: la felicità dei padri, che hanno vissuto i fasti dell’era Maradona, si fonde con quella dei figli, per i quali lo scudetto era stato finora solo un racconto, quasi una leggenda. Quel sogno è diventato realtà. Due volte, in tre anni.

Sono stati scudetti costruiti con pazienza e visione, figli della programmazione e del coraggio, nati da un progetto manageriale solido e duraturo. Un modello che ha rotto gli stereotipi che, ancora oggi, deformano il racconto su Napoli. Lo ha detto bene Aurelio De Laurentiis, che ha risollevato il club dal fallimento e, in quindici anni, lo ha portato a essere sempre presente in Europa. La vittoria sportiva coincide con l’ambizione di una città che non cerca rivincite: perché Napoli non è seconda a nessuno, né nella cultura né nell’arte, nella musica o nello sport. La sua storia, la sua vocazione internazionale, il suo spirito imprenditoriale sono testimonianze di una capitale autentica.

In questi giorni, le strade – da Napoli a New York, da Milano a Sydney – continuano a vibrare di un’energia speciale. L’azzurro non è solo un colore: è appartenenza, è orgoglio, è anche un brand riconosciuto e vincente, come ha scritto Massimo Corcione. Ma questa energia non va dispersa. Va canalizzata. Perché alla base di questo successo c’è un modello preciso: lo spirito di squadra, il superamento dell’individualismo, la capacità di “fare rete”. Era il messaggio di Spalletti, è oggi quello di Conte, e deve diventare la filosofia di tutta la città.

Negli anni ’70, Claudio Lolli cantava: «Disoccupate le strade dai sogni». È ancora attuale: dovremmo liberare le strade dai sogni e riempirle di idee, progetti, imprese. Fare rete. Trasformare la passione in costruzione. Come accade con le grandi sfide sportive. Come l’America’s Cup. Come le Academy dei nostri giovani talenti.

Questi non sono più gli anni dell’eroe solitario, di Maradona come divinità laica, corpo mistico che si fondeva con quello della città ferita. Oggi non servono santi né altari: serve una squadra. Serve la capacità di rialzarsi dopo ogni sconfitta. Serve, soprattutto, quella «remota, ereditaria, superiore pazienza» che Giuseppe Marotta definì “l’oro di Napoli”.

A questo senso profondo di identità e appartenenza, Pino Daniele ha dedicato una delle sue canzoni più belle: Terra mia. E oggi è proprio quel sentimento a risuonare nella città, nel legame profondo tra la squadra e il suo popolo. La maglia non è riscatto né vendetta: è identità. È radice. È casa. È terra nostra.

Nel giorno della sfilata azzurra, vale la pena ricordarlo: a Napoli, più che altrove, l’identificazione con la squadra è totale. A differenza di altre metropoli, qui non esistono due anime calcistiche: non c’è una Napoli “altra” rispetto al Napoli. Non c’è una divisione come a Milano, a Roma o a Madrid. Qui c’è una sola squadra, un solo popolo, un solo amore. Un amore viscerale, che arriva a modificare persino il linguaggio dell’affetto – come nel caso di McTominay, ribattezzato “McFratm” dal popolo partenopeo – e che può trasformarsi, talvolta, anche in dolore e tradimento. Come avvenne con Higuain, amato e poi odiato per aver scelto la Juventus, squadra percepita come distante e nemica, non solo sul piano sportivo.

Questo è il romanzo collettivo di Napoli. Il romanzo di un popolo che non smette mai di crederci. Di rialzarsi. E di amare.

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